Storia del diritto Italiano

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STORIA DEL DIRITTO ITALIANO “AUCTOR IURIS HOMO”
Storia e storicità del diritto
La pulce nell’orecchio
Tanta storia per fare un giurista.
In certe università, per far posto sugli scaffali delle biblioteche, vengono buttate via le annate più vecchie delle riviste pensando che queste non abbiano più niente da offrire.
Nelle facoltà di giurisprudenza invece tali riviste vengono conservate in quanto il giurista sente lucidamente che il suo è un “sapere cumulativo”.
Ciò spiega per quale motivo nelle facoltà scientifiche, a differenza di quelle di giurisprudenza, manchi quasi completamente un istruzione storica.
Alla ricerca del centro di gravità
Per comprendere il motivo di tanta presenza delle discipline storiche nella nostra facoltà occorre tener presente che la storia non serve per conoscere meglio un aspetto specifico della complessiva esperienza del passato ma per consentire di guardare all’esperienza giuridica nel suo complesso da un angolo visuale più ampio.
Uscire dal labirinto per capirne la pianta
Finché il giurista si aggira nel suo labirinto sperando di capirne la pianta e trovare l’uscita, la sua fatica rischia di essere del tutto inutile. Se, grazie alla storia, riesce invece a sollevarsi e guardare dall’alto al groviglio dei vicoli, gli sarà tutto più facile.
Un esempio tra mille
Che l’utilizzazione della prospettiva storica sia l’elemento essenziale dell’operazione interpretativa del giurista, avremo agio di constatarlo diverse volte. Può essere utile addurre comunque, come esempio, due norme del codice civile, simili e nel contempo diversissime.
L’art. 2712 dispone che “le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti o di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti e alle cose medesime”. Il legislatore del 1942, conscio di quanto il progresso tecnico aveva già approntato fino allora, riconobbe l’esigenza di lasciare la norma “aperta” ad altre possibili prove documentali che la futura tecnologia avrebbe progressivamente messo a punto.
L’art. 2713 dispone che “le taglie o tacche di contrassegno corrispondenti al contrassegno di riscontro formano piena prova tra coloro che usano provare in tal modo le somministrazioni che fanno o ricevono al minuto”. Il legislatore del 1942 decise di mantenere in vita questo mezzo di prova così antico poiché ancora in uso in diverse regioni del regno.
Quindi, in due articoli consecutivi del medesimo codice si trovano disciplinati due mezzi di prova tra loro simili ma provenienti da due universi storici completamente diversi. E una corretta interpretazione, la comprensione di come mai un simile contrasto, può essere fornita solo dall’indagine storica.
Il senso storico del giurista tra passato e presente
Recentemente è stato affermato che “il diritto fisiologicamente non è né un insieme di forme coartanti il divenire della vita sociale, né un insieme di regole autoritarie a presidio del potere costituito, non è cioè un artificio ma […] affonda nelle scaturigini più intime di una civiltà e ne esprime radici e valori”.
Il giurista deve essere attento alla storia perché solo con l’aiuto decisivo della prospettiva storica egli riesce a comprendere il presente dell’esperienza giuridica.
“La storia è la forma dello spirito in cui una civiltà si rende conto del suo passato”: il giurista, meno di altri, può sottrarsi all’osservanza dei profili normativi di questa definizione.
I precedenti inutili e le origini istruttive
Il giurista guarda alla storia per capire meglio i perché ultimi della materia sulla quale indaga. Questo significa che per il giurista il dato storico rappresenta elemento indispensabile della sua indagine solamente quando serve ad illuminare l’origine di un certo ordine giuridico e dei principi che lo governano. Quest’origine può anche trovarsi lontanissima nel tempo: basti pensare all’usura, fenomeno di origini bibliche.
Storia giuridica per giuristi veri
L’insegnamento della storia in una facoltà di giurisprudenza ha quindi il compito di convincere gli studenti della essenziale storicità del diritto.
Alla radice dei problemi
Passato e presente: una distinzione difficile
A ben vedere la linea di distinzione tra attualità e storia è meno marcata di quanto si possa pensare.
Possiamo paragonare l’esperienza giuridica del presente all’ultimo fotogramma di un film. Per quanto possa essere nitido, resta incomprensibile se non si tiene conto di tutti gli altri che lo hanno preceduto.
La conoscenza giuridica come conoscenza storica
La conclusione è che la conoscenza giuridica non può non essere, in quanto tale, una conoscenza essenzialmente storica. Al giurista non è dato di scegliere fra una conoscenza scientifica del diritto e una storica.
Sistema metrico e sistema giuridico
La metafora metrica
Nel vocabolario possiamo trovare tre parole di cui il giurista si serve ordinariamente e su cui occorre riflettere:
• canone (in greco canna graduata per misure): usato specialmente in diritto canonico, ha il significato quasi coincidente di legge.
• regola (righello): ha un campo semantico più vasto di canone,
• norma (squadra).
Questi tre vocaboli ci rimandano tutti al concetto di legge come strumento per misurare.
La storicità della norma consiste nel fatto che se essa esiste è perché si è sentita l’esigenza di farla esistere. Se questo è vero per le norme poste da un legislatore, figuriamoci per quelle consuetudinarie.
Legge e sistema
Questa essenziale storicità, come vale per le singole norme, così vale per ogni sistema normativo nella sua interezza.
L’ordine giuridico
Quando dalla considerazione della norma si passi a quella dell’ordinamento giuridico, l’importanza della storia è ancora più evidente.
L’istituzione ordinata
E’ il rapporto tra ordine giuridico e istituzione ordinata che consente di misurare fino in fondo la essenziale storicità dell’ordinamento stesso. L’interpretazione dell’ordinamento è possibile solo se si prende in considerazione la realtà sociale a cui si applica.
Valori e disvalori sempre a confronto
Riccardo Orestano, famoso storico, ha scritto con linguaggio immaginoso che “senza farina non si fa il pane, senza uva non si fa il vino e senza valori non si fa diritto: per questo ogni esperienza giuridica ha la sua tavola di valori”. Ma questi “valori” non sono tali per una loro oggettiva “bontà” valutabile alla stregua di un metro assoluto, ma per il solo fatto – tutto storico – d’essere stati assunti a fondamento di una determinata istituzione. In quest’ottica l’istituzione religiosa avrà i suoi valori così come l’associazione per delinquere.
Ma i valori non si inventano. Sono il risultato di esigenze e realtà sociali concrete e quindi storiche. Ecco dimostrata la storicità d’ogni ordinamento giuridico.
Povertà e ricchezza (ovvero storicità) del diritto
A questo punto è facile capire che la diagnosi giuridica consiste nel giudicare una situazione di fatto mediante le “regole” di quel particolare ordinamento giuridico e non di altri. Si rischia altrimenti di confondere la diagnosi giuridica con un giudizio di giustizia sostanziale.
Per esempio, come deve essere giuridicamente valutata la testimonianza di fatti delittuosi davanti ad un giudice dello Stato? Come un dovere civico o come uno sgarro da punire? Evidente che nell’ottica statale sarà vera la prima ipotesi, nell’ottica mafiosa la seconda.
Diritto e giustizia
Diritto dell’uomo e giustizia di Dio
La scienza giuridica medievale si pose fin dall’inizio il problema della storicità del diritto. Se lo pose, tuttavia, non come problema teorico d’una essenziale storicità dell’esperienza giuridica, ma come confronto concreto fra sistemi giuridici vigenti per misurarne l’oggettiva validità (la giustizia).
Questa indagine iniziò, si suol dire, quando a metà del XII secolo si affermò che “autore del diritto è l’uomo, autore della giustizia è Dio”. Questo aforisma sembra da attribuire alla scuola di Bulgaro, uno dei quattro dottori scolari d’Irnerio che la tradizione indica come fondatore della scuola di Bologna.
Il significato che possiamo estrapolarne è che il diritto viene ricondotto ad una dimensione umana – non più trascendentale – di cui l’uomo è artefice e di cui torna quindi ad essere responsabile.
La ragione garanzia della giustizia
Nell’esperienza giuridica basso-medievale, la soluzione che sul piano pratico si dette alla dialettica fra legge e giustizia non fu sempre quella appena vista di attribuire la legge alla creatività umana e la giustizia alla disposizione divina ma si arrivò a risolvere quel rapporto nei termini della dialettica tra diritto naturale e norma positiva, condizionando l’esistenza e la validità di questa alla valutazione giustificante di quello. Non si affermava più che la legge ingiusta non è giusta ma che la legge ingiusta non è legge.
Tommaso d’Aquino ci testimonia il risultato finale di questa trasformazione del giudizio di giustizia in giudizio di esistenza della norma giuridica: “una legge che non è giusta non è legge, sicché intanto essa ha valore di legge in quanto abbia un contenuto conforme alla giustizia. E nelle cose umane, si definisce giusto ciò che è retto secondo la regola dettata dalla ragione”; la giustizia, insomma, si misura in termini di ragionevolezza. “Ma a sua volta la prima regola della ragione è la legge naturale […] Ogni legge promulgata dagli uomini in tanto ha sostanza di legge in quanto trae origine dal diritto naturale”. Condizione di esistenza della legge è la sua conformità non tanto alla ragione o a quella di iustitia di cui Dio è author, ma alla lex naturalis. Da questa considerazione deriva anche che “se la legge in qualcosa diverge dal diritto naturale, non è più legge, ma una caricatura della legge”.
Il giudizio di giustizia si è così trasformato da assiologico in ontologico.
Il servo fuggitivo rimandato al padrone e Mosè ingiusto per adeguarsi alla storia
Nell’epistolario Paolino troviamo la breve ma lucidissima Lettera a Filemone. Il destinatario della missiva era un facoltoso personaggio il cui schiavo Onesimo era fuggito rifugiandosi presso Paolo la cui predicazione di uguaglianza fra lo “schiavo” e il “libero” era conosciuta a tutti. Per questo motivo Onesimo si aspettava che Paolo dichiarasse cessata la sua schiavitù e lo rendesse libero. Ma la soluzione di Paolo fu tutt’altra dato che rimandò Onesimo al suo padrone dichiarandosi disposto a risarcire a Filemone tutti i danni patiti per la fuga dello schiavo. Su un piano più alto restava comunque vero che Onesimo e Filemone erano fra loro fratelli in conseguenza di una comune figliolanza divina. Per questo Paolo ingiunse a Filemone di accogliere Onesimo e trattarlo come un fratello. Situazione giuridica di schiavitù e radicale uguaglianza fondata sulla fraternità restavano così, ciascuna nel proprio ordine, perfettamente compossibili fra loro.
Anche nel Nuovo Testamento troviamo affermata la differenza tra prospettiva morale e disciplina giuridica nel governo delle situazioni umane. In una celebre pagina del Vangelo di Matteo, di fronte all’obiezione dei Farisei che gli rammentavano la norma mosaica che consentiva al marito di ripudiare la moglie, Gesù rispose: “per la durezza del vostro cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così”. Poteva quindi essere ammissibile una “norma ingiusta” giustificata da una ragione contingente e concreta (la durezza di cuore dei destinatari della norma).
L’arbitrio di Dio e la libertà del legislatore
“Non deve apparire riprovevole che qualche volta le leggi umane vengano cambiate per adeguarle al mutamento dei tempi”. Con queste parole, Innocenzo III, esordiva per illustrare una nuova norma in campo matrimoniale e precisamente nello specifico settore dell’impedimentum sanguinis.
Le condizioni dell’esperienza
Tutto è esperienza
Definire il “diritto” è forse impossibile. Perciò ci si accontenta di “identificare” il diritto ora con la norma, ora con l’ordinamento, ora infine con l’esperienza giuridica. Se l’identificazione con la norma può facilmente ritenersi inadeguata a rendere integro il quadro di tutto ciò che all’idea di diritto suole riconnettersi, quella con l’ordinamento è apparsa invece esauriente.
L’identificazione “diritto – esperienza giuridica” appare comunque la più appagante. Orestano, commentando tale identificazione, ha giustamente affermato: “il grande merito dell’impiego di questa nozione è stato di promuovere una maggiore possibilità di collegare fra loro le più varie manifestazioni del “giuridico” e di congiungere il “mondo dei comportamenti”, il “mondo delle norme”, il “mondo della riflessione” sui comportamenti e sulle norme”.
Il singolare e il plurale dell’esperienza giuridica
Orestano ha scritto una volta che di esperienza giuridica dovrebbe parlarsi solo al plurale sottolineando così l’essenziale storicità di questa. Tuttavia ciò non esclude che lo storico possa riferirsi all’esperienza giuridica anche al singolare in modo da analizzare e studiare gli elementi costitutivi che sarà possibile riconoscere in ogni singola esperienza che la storia ci propone.
Di fronte all’insieme delle singole esperienze giuridiche deve quindi essere possibile cogliere quelle somiglianze reali per creare un valido criterio di tipizzazione: parleremo quindi di complessi di esperienza, le possibili categorie storiografiche.
Dall’azione alla legge
Pur essendo vero che identificare il diritto con la norma non è sufficiente, è fuori dubbio che l’analisi dell’esperienza giuridica deve necessariamente partire dallo studio dei fatti di normazione. Il che significa, come sosteneva Giuseppe Capograssi, che si deve muovere dall’azione non singolarmente intesa ma come pluralità di azioni. La norma giuridica, in fondo, altro non è che il risultato ultimo di questo processo di tipizzazione delle azioni e delle loro verità.
Questa impostazione consente di distinguere in modo corretto la norma come risultato dal processo che l’ha elaborata.
Obbedire o disobbedire
Nel contesto dell’esperienza giuridica, la norma – una volta formata – si trova a dover fare i conti con i propri destinatari. Lasciando da parte l’obbedienza che può essere mossa sia dall’intima consapevolezza della “bontà” della norma, sia dalla “paura” della sanzione, la problematica maggiore consiste nell’analisi del “perché” di una eventuale disobbedienza generalizzata.
Tale fenomeno potrebbe infatti presagire ad un imminente emergere di valori nuovi, di nuove verità destinate a trovare accoglienza in norme nuove e diverse rispetto a quelle vigenti e disobbedite. Naturalmente in un simile ragionamento occorre tener presente la sostanziale differenza rilevabile tra norma consuetudinaria e norma legislativa. Nella prima infatti legislatore e destinatario della norma si identificano nel medesimo soggetto.
Giudicare gli uomini e conoscere il diritto
Naturalmente il quadro prospettato fina ad ora sarebbe inimmaginabile senza tener conto del ruolo che riveste in ogni esperienza giuridica la giurisdizione. Non ci interessa qui analizzare la funzione giurisdizionale in termini teorici: ciò che vogliamo è studiare la variabilità storica dei modi e degli effetti dell’esercizio di questa.
A dimostrazione di questa realtà storica, sarà sufficiente rammentare alcuni casi: si pensi al pretore romano che redigendo il proprio edictum predisponeva i criteri sostanziali secondo i quali avrebbe esercitato la sua funzione; si pensi poi al giudice dell’Alto Medio Evo, durante il quale la consuetudine era la regola e il suo compito consisteva – prima che nel giudicare – nell’accertare la norma, e agli ordinamenti comunali durante i quali il giudice doveva soltanto applicare correttamente norme già scritte. Potremmo ricordare infine i collegi di giuristi dell’età principesca dal Cinquecento in poi. Con le loro decisiones spesso oltrepassavano la funzione meramente giurisdizionale di utilità pratica alla soluzione di una certa controversia per divenire una sorta di “pavoneggiamento” della propria cultura giuridica.
Un discorso simile può essere fatto a proposito della scienza giuridica: essa ha avuto nel corso della storia le sue significative variabili di funzione all’interno dei diversi complessi d’esperienza; nel senso che non sempre essa si è limitata ad essere mera autocoscienza e razionalizzazione dell’esperienza nella quale si trovava ad operare. Si pensi alla iurisprudentia romana, alla scientia iuris del Basso Medioevo e alla moderna idea di Codice.

L’ESPERIENZA GIURIDICA BASSO-MEDIEVALE (CAPITOLO IV)
Il complesso d’esperienza giuridica basso-medievale
Il nuovo millennio: miti e realtà
Assimilato il concetto di “complesso d’esperienza giuridica”, il primo problema propriamente storico che ci si presenta è cosa si debba intendere, cronologicamente, con l’attributo “basso-medievale”. Premesso che ogni periodizzamento altro non è che una invenzione dello storico per leggere i suoi dati, si suole far coincidere l’inizio del periodo basso-medievale con l’avvento dell’anno 1000 d.c.
Quello che lo storico constata è una crisi generalizzata di tutta la società occidentale. Al volgere del nuovo millennio cominciamo ad intravedere talune novità che, emergendo, tendono a mutare l’insieme del quadro.
Sono novità d’ogni genere: la Chiesa è percorsa da un fremito di riforma, il pensiero filosofico è profondamente rinnovato da personaggi come Anselmo d’Aosta e Pier Damiani; nelle arti figurative si cominciano a levare i grandi monumenti dell’architettura romanica in Italia e nel resto d’Europa; rifiorisce l’arte scultorea. In campo linguistico si va affermando il volgare anche come lingua scritta: è del marzo 960 la celeberrima Carta di Capua.
Da un punto di vista sociale con l’anno 1000 comincia un lento ma irreversibile processo di ripopolamento delle campagne e delle città dovuto all’incremento demografico. Come effetti si ebbero la messa a cultura di aree precedentemente incolte e il mutare dei modi di coltivazione del suolo e dei relativi rapporti economico-giuridici. Nasce in questo contesto la figura nuova del mercante e con essa l’idea di “confine geografico” della realtà sociale locale si estende a coprire praticamente l’intero orbe allora conosciuto.
Questi cambiamenti si tradussero in altrettanti cambiamenti istituzionali. La prima delle istituzioni ad essere completamente sovvertita fino a stravolgere completamente i suoi tratti originari fu il feudo. All’idea dei rapporti soggettivi intesi secondo un modulo verticale – che si era cristallizzato nel sistema del feudo – si va a sostituire un’idea di intersoggettività orizzontale, fondata cioè non sulla fedeltà e sul servizio, ma sull’intuizione della uguaglianza di tutti i soggetti partecipi del rapporto politico.
Valori ed esigenze: le nuove verità emergenti e la conseguente ricchezza dei fatti di normazione
L’uomo del Basso Medioevo fu come costretto a tenere tutta una serie di comportamenti “nuovi” rispetto a quelli che erano stati “canonizzati” dalla società alto-medievale.
Nei rapporti politici (o di diritto pubblico diremmo noi), le azioni si sviluppano secondo quella “intersoggettività orizzontale” di cui parlavamo prima. Si pensi alla partecipazione alle assemblee comunali o corporative, alle elezioni alle diverse cariche ecc.
In campo privato si pensi al mutare dei rapporti familiari ma soprattutto alla miriade di nuovi comportamenti e azioni riconducibili alla vita dei traffici mercantili.
Poiché l’esperienza giuridica alto-medievale era assolutamente inadeguata a rappresentare la base di sviluppo di un nuovo sistema normativo, la società del nuovo millennio si trovava in una situazione di insaziabile “sete” di norme. Per continuare la metafora occorre ricordare che la società dell’epoca, insensibile a qualunque problema di legittimazione, non si preoccupava di sapere chi le “mesceva” l’acqua ma reputava sufficiente sapere che l’acqua fosse “potabile”.
Le istituzioni e la loro “naturale” inadeguatezza normativa
In una società che aveva così rapidamente scoperto tanti comportamenti radicalmente nuovi, le istituzioni che avrebbero dovuto darsi carico della necessaria normazione furono impari al loro compito. Assente quasi del tutto l’Impero, relegato ormai ad una funzione di puro simbolo politico, l’attività normativa fu quasi completamente assolta dalla Chiesa e dalle istituzioni generate dalla medesima società da cui emergevano ovvero i Comuni e le Corporazioni.
Il motivo per cui l’Impero e la Chiesa si “invertirono” i ruoli nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo è probabilmente da ricercare nella diversa fonte cui derivavano la normazione: la consuetudine per l’Impero, legge scritta per la Chiesa. E in effetti, la società basso-medievale aveva essenzialmente bisogno di norme scritte per un diritto sicuro.
D’altra parte, i Comuni e le Corporazioni, realmente prodighi di norme, puntarono sempre la propria attività normativa verso la soluzione di problematiche contingenti senza preoccuparsi di dettare “principi generali”. Questi ultimi, semmai, furono codificati quando si iniziò a raccogliere i vari “statuti” ed astrarre da essi i precetti generali.
La “pretesa” rinascita del diritto romano. La rinnovata lectura della littera giustinianea
Il compito del giurista fu di elaborare un impianto di fondo che desse anche coerenza unitaria alla miriade di nuove norme che le nuove istituzioni andavano generando. Tale compito fu assolto con l’ausilio di due strumenti: la rilettura dei testi del diritto giustinianeo e le norme che l’ordinamento della Chiesa veniva proprio allora producendo.
Fu Irnerio il primo maestro del nascente studio Bolognese a riscoprire il diritto giustinianeo e tale riscoperta non rimase un fatto isolato. Così passarono sotto gli occhi dei giuristi il Codex, le Novellae Constitutiones, le Istitutiones e i Digesta: fu in tal modo elaborato il primo Corpus Juris Civilis.
Questa vicenda suole oggi collocarla in quello che gli storici chiamano Rinascimento Giuridico.
In realtà nulla rinacque né risorse, perché nulla – nel fluire della storia – può rinascere tale e quale a una seconda vita: non rinacque un ordinamento che era morto secoli prima; non risorse un’esperienza giuridica che da altrettanto tempo aveva chiuso la sua vicenda. Ritornò invece in circolazione il prodotto che quell’ordinamento aveva generato. Questo materiale fu oggetto di una rinnovata lettura, la quale soltanto fu il fatto veramente nuovo che caratterizzò l’esperienza giuridica basso-medievale.
Il Corpus Juris Canonici e il suo impianto medievale
Contemporaneamente alla riscoperta dei testi romani, anche la Chiesa rinnovò largamente il suo patrimonio normativo. Nacque così, ad opera del monaco Graziano, la Concordantia discordantium canonum, meglio nota con il semplice nome di Decretum Gratiani.
Un altro strumento di produzione normativa di questo periodo erano le Litterae decretalis con le quali i Pontefici, rispondendo ad un quesito su una fattispecie dubbia, dettavano allo stesso tempo una norma generale. Questa normazione pontificia fu via via raccolta in successive compilazioni.
L’opera interpretativa dei doctores e il loro impegno politico
Abbiamo visto che le fonti normative del periodo che stiamo studiando erano molteplici e del tutto eterogenee fra loro. Il compito di ricomporre ad unità tutto il materiale fu assunto dalla scienza giuridica con lo strumento della interpretatio juris. Il concetto di quest’ultima ha tuttavia un contenuto ben più ampio della “interpretazione” modernamente intesa. L’interpretatio juris infatti costituiva una vera e propria elaborazione dei concetti e dei precetti giuridici ai fini del loro accrescimento.
La cultura basso-medievale si presenta contrassegnata da una singolare vocazione di costruire il proprio discorso come una specie di pianta parassita appoggiata sulla struttura portante d’un altro discorso assunto quasi a punto di partenza del proprio itinerario speculativo. Da questo atteggiamento nacquero i grandi apparati di “glosse”: opere, cioè, le quali si presentavano come un insieme di commenti puntuali ad un testo assunto come oggetto di una lettura particolarmente analitica.
Tutto questo spiega il totale disinteresse di questi giuristi per una comprensione storicamente corretta dei testi della Compilazione giustinianea, la loro assoluta spregiudicatezza nello stravolgere la sostanza di questi testi per utilizzarne il patrimonio tecnico e concettuale come una specie di “materiale da costruzione” con cui elaborare la struttura dell’esperienza giuridica del proprio tempo.
Alcuni esempi
1. Da Ulpiano: l’accordo delle parti può avere l’effetto di attribuire la competenza a giudicare la controversia ad un giudice che, secondo le regole oggettive che ne determinano l’attribuzione, ne sarebbe privo. Gli interpreti basso-medievali estesero la portata di tale precetto dalla competenza alla giurisdizione.
2. Sempre da Ulpiano: nel comodato si ha la rilevanza di una eventuale responsabilità per colpa. Gli interpreti tripartirono la colpa in tre gradi (lata, levis e levissima) e divisero le fattispecie di comodato a seconda che il comodato fosse nell’interesse del comodatario, del comodante o di entrambi.
Il notariato e la relativa dottrina
Il “notaro” era stato uno dei principali artefici dell’esperienza giuridica alto-medievale, riuscendo soprattutto nella non lieve impresa di calare l’enorme patrimonio consuetudinario entro schemi razionalizzati. Ma anche nel basso medioevo ebbe una posizione di rilevo partecipando attivamente nella vita politica di tutti i giorni: gran parte della storia dell’esperienza giuridica del tempo è racchiusa negli archivi notarili.
La particolare situazione istituzionale del Regnum Siciliae e la sua sostanziale somiglianza con il resto d’Italia
Un discorso a parte merita la situazione istituzionale del Regnum Siciliae. Anzitutto, a differenza di quanto accadeva nel resto d’Italia dove il potere imperiale era ridotto a lavorare sul piano dei simboli, il rex meridionale era un legislatore attivo e amministratore sagace: nel Regnum, insomma, si venne a creare un’autentica struttura statuale con forti tendenze centripete. Per questo motivo le città dell’Italia meridionale non raggiunsero lo stesso grado di libertà delle “sorelle” centro-settentrionali, avendo la sola possibilità concessa dal Rex di mettere per iscritto le proprie consuetudini.
Tuttavia, nonostante le differenze appena viste, anche nell’esperienza giuridica meridionale è ravvisabile il sostanziale rinnovamento “generale” caratteristico del nuovo millennio.

MERCANTI E SOCIETÀ TRA MERCANTI
Mercanti
Alla radice dell’art. 2082 del codice civile
Produzione e scambio
Ai sensi dell’art. 2082 “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. La norma in esame parifica di fatto due grandi “momenti” dell’attività d’impresa: quello industriale (a cui fa riferimento il termine “produzione”) e quello commerciale (a cui il codice allude con il termine “scambio”).
Nonostante questa parificazione formale – tuttavia – la “commercializzazione” del prodotto è sentita come secondaria rispetto alla sua “produzione”.
Dal “commerciante” allo “imprenditore”
Per capire in modo corretto il significato e il valore dell’art. 2082 occorre naturalmente una pur succinta analisi storica. Punto di partenza obbligatorio è l’art. 1 del Code de Commerce Napoleonico: “sono commercianti quelli che esercitano atti di commercio facendone la loro professione abituale”. Precedentemente a tale norma, la qualifica di commerciante si acquisiva dopo una serie di atti formali e soprattutto per appartenenza ad una Corporazione.
La definizione del Codice di Commercio Napoleonico – tuttavia – è completa solo se viene chiarito il significato di “atto di commercio”: all’art. 632 troviamo qualificati come tali le compere di derrate e di merci per poi rivenderle, le imprese di manifatture, di commissioni e di trasporti, le somministrazioni, le agenzie, gli uffici d’affari. A parte ogni possibile rilievo sulla coerenza sistematica di queste norme, ciò che appare subito evidente è che il momento della produzione è senz’altro considerato secondario rispetto a quello dello scambio.
Il nostro codice di commercio del Regno d’Italia riprende quasi letteralmente il “cugino” d’oltr’Alpe con l’unica differenza di collocare – molto più razionalmente – l’elenco delle attività qualificabili come “atti di commercio” immediatamente dopo alla definizione di commerciante.
Nel 1882 un nuovo Codice di Commercio sostituisce quello del 1865: il diritto commerciale cessava di essere un ius mercatorum e diventava uno ius mercaturae. In altre parole era rilevante non tanto il soggetto a cui il diritto commerciale si riferiva (il commerciante appunto) ma gli atti qualificabili come oggetto del diritto stesso (atti di commercio). Nonostante questo, il filo conduttore che partiva dall’originario Code de Commerce Napoleonico era sempre intatto: il diritto commerciale era e restava rigorosamente un complesso di norme destinate a regolare “il comprare per rivendere”.
Con il codice civile del 1942 questa tradizione si infrange. Non si parla più di commerciante o di atti di commercio ma di imprenditore la cui attività è in primo luogo di produzione e solo successivamente di scambio. Il rapporto fra commercio e industria appare così sostanzialmente invertito.
La ragione di questa mutata prospettiva è da ricercare negli effetti della rivoluzione industriale che fece dell’industriale il protagonista della società del tempo (e ancora oggi!).
Diritto commerciale e diritto industriale
Il mutamento di cui abbiamo appena detto, avvenne alla convergenza di due avvenimenti, imparagonabili tra loro per mole, ma senza dubbio capaci di trasformare l’intero sistema di diritto commerciale: la rivoluzione industriale – già vista – e la “unificazione legislativa” che proprio nel 1942 si compì, fra diritto civile e diritto commerciale.
Un vocabolario antico e resistente
All’unificazione legislativa – tuttavia – non si accompagnò una corrispondente unificazione del sapere giuridico: il diritto commerciale continuò (e continua) ad avere un ruolo scientifico autonomo.
Si continua ancora oggi a parlare di diritto commerciale, ricomprendendovi anche la disciplina delle imprese industriali e malgrado che il commerciante e l’atto di commercio abbaino perso nel sistema normativo vigente quella centralità che i vecchi codici riconoscevano e proclamavano, perché intorno al commercio e al commerciante si è per secoli venuta formando e consolidando quella vasta ed articolata provincia dell’ordinamento e della scienza giuridica che forse oggi potremmo meglio chiamare diritto d’impresa.
La funzione del mercante medievale
Una società con molte esigenze
Il tentativo di ricostruire la figura del “mercante” deve prendere le mosse dalla società comunale: del tutto convenzionalmente potremmo porre come termine iniziale l’anno Mille. In tale periodo assistiamo al passaggio da una società curtense, dove la funzione mercantile era necessariamente marginale, ad una società urbana, dove il “mercato” si imponeva come una componete essenziale e la mobilità delle persone di contrapponeva ad una marcata “staticità” rispetto alla società curtense.
Tanti produttori per un solo mercato
Quello delle città fu un mercato assai robusto: una società vivace traduce le proprie esigenze nei termini di una domanda sostenuta e differenziata. Il soddisfacimento di questa domanda era però affidato ad una moltitudine di piccoli produttori artigianali che non erano in grado di far fronte all’intero ciclo produttivo. Si rischiava l’impossibilità di formare un mercato.
L’intermediazione come funzione imprenditoriale
Se il rischio dell’impossibilità che si diceva poc’anzi fu scongiurato, lo si deve al mercante.
La figura del “mercante medievale” – si badi bene – è ben diversa da quella dei nostri tempi. Nel periodo in analisi, il mercante era colui che analizzava la domanda, commissionava i prodotti agli artigiani dirigendo la varie fasi della lavorazione, immagazzinava il prodotto e infine lo immetteva sul mercato. Di tutte queste attività il mercante si addossava l’onere e il rischio. Non l’artigiano che si limitava a eseguire i lavori commissionati e riscuoterne il compenso. A ben vedere, quindi, solo il mercante poteva essere qualificato come imprenditore.
Un mestiere con parecchi volti
Un’ultima cosa c’è da aggiungere, per completare il profilo del mercante: egli non si legò sempre e solo ad un settore merceologico. Lana, seta, spezie, cambio, credito, sono tutti settori in cui il mercante poteva cimentarsi anche contemporaneamente. Questo è comprensibile se si pensa al fatto che il mercante non doveva preoccuparsi delle varie tecniche di produzione di una particolare merce ma solo analizzare la domanda e in base a questa commissionare gli artigiani acciocché la producessero.
Mercanti in una società mercantile
Una “società mercantile”
La società basso-medievale è universalmente riconosciuta come una società mercantile. E questo perché, all’epoca, quello dei mercanti era un ceto egemone, protagonista della vita sociale e culturale. Quindi non dobbiamo intendere la società basso-medievale come “mercantile” in senso quantitativo (altrimenti anche la società Romana poteva chiamarsi mercantile) ma qualitativo.
Dall’eques romano al mercante medievale
Il confronto fra società romana e post-comunale merita di essere approfondito. A Roma l’attività commerciale ebbe certamente proporzioni imponenti, e analogo rilievo ebbero coloro che la esercitarono. Gli interessi commerciali influenzarono la politica estera Romana verso la fine del III secolo a.C. orientandola verso l’espansione coloniale. Si ebbe così una larga diffusione nel Mediterraneo dei negotiatores romano-italici, i quali convogliavano merci e schiavi in Italia dove il commercio si alimentava delle somme ricavate dalle imposte provinciali appaltate dai publicani (la parte più rappresentativa degli equites). Tuttavia, benché questi ultimi acquisirono un notevole potere, la società romana, la sua cultura, il suo quadro di valori, restarono sempre legati ai canoni quiritari. In altre parole i latifondisti ebbero sempre un ruolo egemone e così lo stesso diritto romano, in particolare il sistema delle obbligazioni, ne fu sempre influenzato.
Per questi motivi non ha senso parlare di un “diritto commerciale romano”: non perché non vi fossero a Roma rapporti commerciali da regolare, ma perché queste regole furono regolate all’interno di unitario sistema di ius civile costruito a misura di una civitas i cui valori non corrispondevano a quelli del ceto mercantile. Proprio il contrario – come abbiamo visto – di ciò che stava accadendo nella società basso-medievale.
Le ragioni di specialità del ius mercatorum
Le premesse fin qui esposte ci fanno comprendere il perché di uno ius speciale che regolasse – nella società basso-medievale – i rapporti commerciali.
Certo, un primo fondamento di questo ius speciale era di natura istituzionale: la Corporazione. Ma non dobbiamo dimenticare che questa struttura istituzionale non avrebbe avuto nessun valore se questo ius non avesse rappresentato la risposta puntuale ad un insieme di istanze che la società avvertiva in modo altrettanto puntuale e organico, e di cui era portatore un ceto che aveva senz’altro la forza per imporne soluzioni conformi ai suoi interessi.
L’esigenza di questa specialità nel regolare i rapporti commerciali, era riconosciuta dagli stessi giuristi dell’epoca come Benvenuto Stracca. Il suo discorso è illuminante per due motivi: Il primo è che la discussione sulla specificità del diritto commerciale è dallo Stracca impostata tenendo fermo, come punto di riferimento, l’alternativa fra aequitas quale criterio tipico nell’esercizio della giurisdizione speciale mercantile e apices iuris quali contrassegni di una giurisdizione ordinaria più vincolata all’osservanza rigorosa e logicamente motivata dallo strictum ius. Il secondo motivo di interesse è offerto invece dal rapporto fra autonomia normativa mercantile e sistema degli interessi meritevoli di tutela.
Un “rischio del mestiere”: il fallimento
Una vita pericolosa e una “vergogna” per tutti
Come abbiamo visto, solo il mercante poteva essere qualificato come “imprenditore” e – come tale – solo lui si esponeva ai rischi che tale qualifica comporta. La società mercantile era per necessità una società fondata sul credito e la fiducia.
Il fallimento – sotto quest’ottica – fu sempre inteso come un grave fatto antisociale dal momento che rendeva impossibile completare la “catena” di fiducia del credito. Per questo motivo la sua disciplina ebbe sempre i caratteri di una forte repressività: il fallimento insomma, fin da principio fu visto più come un misfatto che come una sventura.
La fuga come comportamento antisociale (e perciò antigiuridico)
Le prime norme statutarie sul fallimento si trovarono da subito a dover fare i conti con un problema di difficile soluzione: l’individuazione del fallito. Dopo qualche iniziale incertezza i legislatori colsero nella fuga il sintomo tipico e infallibile del dissesto di un mercante.
Dalla fuga all’insolvenza
In seguito si capì che l’applicazione delle norme in materia di fallimento era conseguenza dell’insolvenza e non della fuga. A questa constatazione seguirono molteplici interventi normativi da parte dei Comuni che individuarono nella fuga non tanto il presupposto stesso del fallimento ma solo un sintomo del dissesto del mercante. E proprio questo dissesto – una volta accertato – era il presupposto del fallimento.
Le pene del fallito
Il fallimento fu sempre considerato come un grave reato e come tale punito. La sanzione più generalmente riservata ai falliti fu quella del bando, talvolta come indiscriminata conseguenza del fallimento, in altri casi specificata nelle singole capitis deminutiones che tradizionalmente concorrevano a costituirne il contenuto, come l’espulsione dal Comune e la privazione del diritto di cittadinanza, la mancata protezione del fallito nei confronti del suo eventuale offensore, la privazione del potere di chiedere giustizia, il divieto per il fallito di giovarsi del ministero di un difensore. A questa sanzione generale del bando altre talvolta se ne aggiunsero di più specifiche (interdizione dai pubblici uffici o dall’esercizio della mercatura). Un altro effetto personali del fallimento fu l’iscrizione del fallito in un apposito elenco (e nel fiorentino addirittura l’affissione del suo ritratto in pubblico ad perpetuam eius infamiam).
Questa indiscriminata qualificazione del fallimento come reato non era però destinata a sopravvivere: emerse ad un certo punto l’esigenza di distinguere, all’interno della complessa fattispecie tipica del fallimento, fra le ipotesi che meritassero sanzioni penali rispetto a quelle in cui la rilevanza penale poteva apparire inadeguata ed eccessiva.
Proprio qui è da segnare il passaggio dal fallimento-reato al reato fallimentare: il primo, che non consentiva né distinzioni fra fattispecie in sé oggettivamente diverse né gradazione di reazioni sanzionatorie; il secondo, nel quale la decozione veniva retrocessa da fatto costitutivo a presupposto di punibilità del reato stesso. Il primo segnale nitido di questo nuovo e diverso trattamento penale da riservarsi al fallito ci viene da un decreto di Galeazzo Maria Sforza del 1473: il fallito doveva essere considerato un ribelle al signore e allo stato a meno che non fosse apparso chiaro che un qualche “infortunio” fosse stata la causa del fallimento o che vi fosse stata comunque una causa oggettiva di non punibilità.
La formazione dell’attivo e del passivo fallimentare
Il fallimento – come istituto – era il complesso di strumenti predisposti per la liquidazione del patrimonio del fallito nell’interesse dei suoi creditori. Poiché il fallimento restava comunque connotato da una profonda antigiuridicità, è comprensibile che tutto il procedimento fosse volto a realizzare al massimo le aspettative dei creditori senza che sorgesse mai la preoccupazione di controbilanciare questi interessi con quelli del fallito. Di questo, che potremmo chiamare favor creditorum, le norme statutarie relative alla formazione dell’attivo fallimentare offrono riscontri chiarissimi. Esse si fondavano sul principio della sottoposizione ad esecuzione forzata dell’intero patrimonio del fallito che ne subiva lo spossessamento come conseguenza diretta ed immediata del fallimento. Accanto a questa regola generale ve ne furono altre specifiche che imposero ai terzi detentori delle cose del fallito di consegnarle alla massa fallimentare e ai debitori del fallito di pagare i propri debiti agli organi preposti al fallimento.
Se i beni che il fallito aveva al momento del fallimento ponevano al legislatore il solo problema del loro reperimento, più complesso risultava il compito di sottoporre a valutazione critica quei negozi con i quali il fallito avesse oggettivamente depauperato il suo patrimonio al fine di sottrarre beni alla disponibilità dei creditori. I legislatori trovarono la soluzione nel sostituire al presupposto soggettivo della frode (di lungo e difficile accertamento) quello oggettivo del tempo nel quale era stato compiuto il negozio. Nacque così quel singolare strumento processuale che è l’azione revocatoria fallimentare.
A fronte dell’accertamento e della formazione dell’attivo di poneva il problema di determinare quale fosse la massa dei debiti del fallito, al cui soddisfacimento si sarebbe dovuto provvedere. Il procedimento era in linea di massima il seguente: fissazione di un termine per i creditori di insinuarsi al passivo; la cognizione cumulativa e sommaria dei crediti sulla base di una istruzione probatoria ridotta al minimo.
Non secundum ius dictat
Il nucleo essenziale dell’istituto del fallimento consiste nel criterio con cui debbono essere ripartite fra i creditori le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo. Partendo dal dato di fatto secondo il quale il passivo supera necessariamente l’attivo, occorreva stabilire chi fra i creditori aveva il diritto di soddisfarsi e chi – suo malgrado – doveva “scontare” l’insolvenza del fallito. Scartata l’ipotesi di privilegiare i crediti più antichi rispetto ai più recenti, la scelta del legislatore si indirizzo quasi da subito sul sistema della ripartizione proporzionale.
Questo principio generale non fu comunque privo di temperamenti. Ad esempio, i crediti che spettavano alla moglie del fallito – in conseguenza della costituzione della dote – erano considerati estranei al fallimento e dovevano essere pagati integralmente. Altri temperamenti possiamo trovarli sparsi e differenziati a secondo del Comune. Venivano così privilegiati i crediti della Repubblica (legislazione veneta), i crediti sorti da oltre sette mesi prima del fallimento (Ferrara), crediti del Comune e crediti garantiti da Fideiussione (Bologna) ecc.
Il concordato
Abbiamo visto come il fallimento fosse volto alla tutela degli interessi dei creditori, sublimati – questi ultimi – al rango di “interessi pubblici”. Tuttavia esisteva anche un’altra soluzione che le varie legislazioni offrivano al dissesto di un mercante. Stiamo parlando del concordato, contratto mediante il quale fallito e creditori potevano accordarsi circa le modalità del pagamento dei debiti.
Diversa, anche se connessa a quella del concordato, fu la funzione del salvacondotto: il quale servì solamente a sospendere le sanzioni personali nei confronti del fallito al fine di consentire le trattative in vista della eventuale stipulazione di un concordato.
Un discorso a parte merita la legislazione veneziana. Qui era considerato un dovere morale prestare soccorso al fallito: pertanto, qualora il fugitivus depositasse tempestivamente le scritture contabili e il patrimonio, aveva diritto alla fida, periodo durante il quale si doveva arrivare ad un accordo fra fallito e creditori. Un simile indirizzo ebbe difficoltà ad armonizzarsi con quelli degli altri comuni italiani al momento dell’espansione veneziana. Basti pensare alla “soluzione politica” che il Doge Nicola Tron dettò per venire in contro alla proteste dei bresciani che lamentavano l’estrema facilità con cui venivano concessi i salvacondotti. Stabilì che i salvacondotti non potevano più essere concessi se non con il consenso dei creditori; tuttavia si doveva fare tutto il possibile affinché i creditori accettassero di buon grado la concessione del salvacondotto stesso.
Società tra mercanti
Una “nozione” che non definisce
La chiarezza solo apparente dell’art. 2247 c.c.
Ai sensi dell’art. 2247 “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. Una tale definizione di “società commerciale” è solo in apparenza esaustiva. Ciò dal momento che esistono alcuni tipi di società – che vedremo in seguito – difficilmente inseribili nel contesto logico appena illustrato.
I possibili raffronti storici e sistematici
Anche in questo caso, per capire bene la portata dell’art. 2247, occorre svolgere una breve indagine storica dei precedenti normativi. Sarà interessante – in particolare – vedere come il codice civile del 1865 e quello successivo del commercio del 1882 regolavano la stessa materia, tenuto anche conto che con il codice vigente del 1942 è stata compiuta l’unificazione della materia civile con quella commerciale.
Il codice del 1865 definiva la società come “un contratto col quale due o più persone convengono di mettere qualche cosa in comune, al fine di dividere il guadagno che ne potrà derivare”. A parte la ovvia menzione alla pluralità dei soggetti, l’unico elemento che accomuna la norma ottocentesca a quella vigente è lo scopo di “dividere il guadagno”. La divergenza più vistosa sta nel profilo della comunione che esauriva – per il vecchio legislatore civile – l’oggetto tipico del contratto di società.
L’art. 76 del codice di commercio del 1882, più che una definizione, forniva un elenco di diversi tipi di società commerciale. Delle società commerciali come genus il codice si limitava a constatare che esse “hanno per oggetto uno o più atti di commercio”.
Qualche lume in più può venirci dalla lettura congiunta dell’art. 2247 con l’art. 2082 (che definisce l’imprenditore). In entrambe le norme vengono usati gli stessi “strumenti” definitori. E’ evidente, insomma, che la nozione che il codice vigente offre di società riguarda pressoché esclusivamente le società commerciali che vengono identificate come imprese gestite da una pluralità di soggetti.
I limiti propri di ogni definitio in iure e le possibili contraddizioni del “sistema” delle società
Se è vero che la definizione mira a cogliere la sostanza di ciascuna cosa e a descriverla, ogni definizione non può avere ad oggetto che una cosa. In materia di società e di definizione legislativa della società il problema, come tra non molto vedremo, proprio in questo consiste: nel sapere se quella “cosa” di cui l’art. 2247 vorrebbe fornirci “la nozione” sia davvero una, o se invece dietro a quella nozione non si nasconda una categoria complessa e difficilmente riducibile ad unità.

La società e le società
La società come contratto e come rapporto obbligatorio, ovvero come struttura d’impresa
La nozione di società che abbiamo appena visto, parte dalla identificazione del contratto di società come fonte da cui la società stessa trae la propria esistenza e il proprio assetto. In questa prospettiva la società non è altro che un rapporto obbligatorio tra coloro che l’hanno costituita. Oggi – tuttavia – nessuno potrebbe più appagarsi di questa collocazione della società nel sistema dei contratti. Accanto al profilo contrattuale-obbligatorio ve n’è infatti un altro collegato alla società come struttura d’impresa. Se questa differenza era meglio percepibile nei vecchi codici ottocenteschi dove esisteva una società “civile” (regolata cioè dalla legislazione civile) e una più propriamente commerciale (regolata nel codice di commercio), con l’unificazione delle due materie l’identificazione della natura giuridica della “società” è resa più ambigua.
La nozione “formale” di attività comune: il tentativo di quadratura d’un cerchio
Abbiamo visto che la nozione codificata di società ha il proprio centro di gravità nella “attività economica” per svolgere insieme la quale i soci conferiscono “beni o servizi” mirando allo scopo di “dividere gli utili”. A ben vedere, identificare in tutti i vari tipi di società questo elemento particolare costituito dalla “attività economica svolta congiuntamente” non è sempre facile se non impossibile.
L’impressione che si ricava è che la “nozione” finisca con l’essere – più che uno strumento di chiarificazione – un ingombro.
Criteri estrinseci di sistemazione: società di persone e società di capitali. Vere e false storicizzazioni
Quando all’interno di questo genus si cercano le linee di demarcazione fra le varie species che lo compongono, le difficoltà sembrano aumentare. La distinzione che fra tutte potrebbe sembrare la meno problematica è quella fra società di persone e società di capitali: nelle prime l’elemento personale è largamente prevalente rispetto a quello patrimoniale; nelle seconde la situazione è invertita. Questo si riflette – principalmente – in una diversa disciplina della responsabilità dei soci.
Una falsa storicizzazione – o se non falsa, comunque molto superficiale – fa risalire la nascita della società di persone al periodo mercantile basso-medievale, e la società di capitali al formarsi, in pieno XVI secolo, delle grandi concentrazioni di mezzi finanziari in contemporanea con l’affermarsi del grande commercio transoceanico.
In realtà possiamo dire che la storia delle tipologie delle società commerciali, a volerla ricostruire senza forzature, passa assai lontano da quella summa divisio tra società di persone e società di capitali che a prima vista potrebbe sembrare uno spartiacque quasi invalicabile.
Irriducibilità della nozione di società ad esercizio plurisoggettivo dell’impresa
Un dato sembra ormai acquisito: la nozione di società commerciale non è puramente e semplicemente riconducibile all’idea di esercizio plurisoggettivo dell’impresa. Pertanto, dal momento che esistono molte fattispecie qualificate come società commerciali che hanno ben poco a che vedere con la società intesa come impresa collettiva, la validità della nozione dell’art. 2247 è compromessa a meno di non estendere a sproposito il significato di “attività economica esercitata in comune”.
La radicale duplicità della causa societatis
Dalla constatazione appena fatta dell’impossibilità di ricondurre sotto il dettato normativo dell’art. 2247 ogni tipo di società, possiamo effettuare una essenziale bipartizione fra le stesse: società in cui è presente come caratteristico l’esercizio in comune dell’impresa e società in cui tale esercizio è assente.

Guadagnare e mangiare il medesimo pane
La famiglia istituzione “eterna” e continuamente variabile
Quando si parla di famiglia si può avere l’impressione di riferirci ad un dato istituzionale in qualche modo “eterno”. Tuttavia, a ben vedere, anche la famiglia non si presta ad una definizione precisa: il concetto di famiglia e soprattutto l’estensione “quantitativa” dei membri della stessa è sempre stato in continuo mutare.
La famiglia del mercante medievale
Nella società basso-medievale la famiglia assunse una fisionomia ben precisa. Giustamente sottolineata l’importanza degli aggregati soprafamiliari, possiamo dire che nel periodo in esame la famiglia tendeva ad identificarsi con l’impresa, a farsi strumento della sua gestione, a modellarsi su di essa. La famiglia presentava insomma una sua naturale ambivalenza: comunità di consanguinei e consorzio di esercenti la mercatura.
La Compagnia
Le ragioni di fatto per cui la famiglia della società basso-medievale fu tale come mercante sono facilmente comprensibili se torniamo a pensare al lavoro “organizzativo” di cui aveva bisogno la mercatura. Seguire l’intera produzione di una molteplicità di merci non era cosa che poteva svolgere un singolo soggetto. C’erano poi anche esigenze di tipo economico: la disponibilità di grandi capitali da investire era possibile solo mantenendo uniti il più possibile i patrimoni familiari.
Ancora oggi noi diciamo “casa” per indicare (a parte il luogo dove abitiamo) l’impresa commerciale; “filiale” una sua sezione distaccata (in passato probabilmente lasciata in direzione ad un “figlio”); “compagnia”, infine, indica coloro che “stanno nel medesimo pane”.
Nella compagnia vediamo coesistere – in simbiosi quasi perfetta – le ragioni della famiglia e quelle dell’impresa collettiva.
Diversità di funzioni e solidarietà verso i terzi
Non capiremmo il funzionamento della Compagnia se non la analizzassimo con la lente chiarificatrice della “famiglia medievale”. Quindi avremo la figura del pater quale rappresentante di tutta la famiglia, la naturale limitazione di capacità del figlio finché il padre vivesse, l’unicità del patrimonio familiare ecc.
Parenti ed estranei in Compagnia
Questa simbiosi fra famiglia e compagnia è confermata da una duplicità di fatti: il primo è che le compagnie furono sempre costituite nell’ambito di una famiglia e di questa presero il nome; il secondo è che spesso nella compagnia entravano a farne parte anche persone “esterne” alla famiglia.
Il “corpo di Compagnia”
Può essere interessante la considerazione dei capitali conferiti nel “corpo di compagnia” per distinguerli dagli altri di cui la compagnia stessa poteva disporre a diverso titolo per la differenza di regime che ne derivava e per la diversa funzione che queste due specie di mezzi finanziari erano chiamati a svolgere nella dinamica dei rapporti con cui la compagnia poteva trovarsi coinvolta.
Il “nome collettivo” da patronimico comune a ragione sociale
L’art. 2292 dispone che “la società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale”. Se non prendessimo in considerazione la storia che sta dietro a questa norma, la sua comprensione non sarebbe così semplice. Al contrario, tutto si spiega se si pensa a quella matrice familiare da cui questo genere di società prese le mosse, e che può offrire una giustificazione sufficiente di queste norme in particolare e, più in generale, di tutta la disciplina della società in nome collettivo.
Un patto fra denaro e fantasia
Proprietà formale e disponibilità di fatto: la scelta del mercante medievale
Quando si parla di principi generali in materia di appartenenza di cose, il dibattito tende a collocarsi fra due termini teoricamente estremi: da una parte l’appartenenza formale della cosa ad un soggetto considerata e tutelata in quanto tale dall’ordinamento; e, all’estremo opposto, la detenzione della cosa da parte del soggetto considerata e tutelata dall’ordinamento come fatto meramente economico.
Il paradigma di proprietà tipico dell’esperienza giuridica romana si collocava nettamente sulla linea del primo dei due termini di cui ora si diceva: il dominium ex iure quiritium significava appartenenza formale della res al suo dominus.
Questi presupposti vennero completamente meno con il passaggio dall’antichità al Medio Evo. I doctores basso-medievali che si trovarono – con la “riscoperta” del Corpus Iuris Giustinianeo – a fare i conti con l’antico dominium ex iure quiritium, dettero di questo un’interpretazione spregiudicata e assolutamente creativa. Nel sistema che nacque dalla loro riflessione non c’era più posto per l’antico dominium ma fu al contrario riconosciuta una pluralità dei dominia e la contemporanea presenza di posizioni giuridiche soggettive direttamente tutelabili come iura in re.
La farina e il sacco
Questo usus facti, questa disponibilità soltanto economica degli strumenti economici indispensabili per la produzione del reddito di mercatura, era quel che al mercante serviva e bastava. A voler dir tutto con un proverbio si potrebbe notare che la farina cercava il sacco e il sacco la farina: non c’era mai farina che bastasse, e i sacchi erano sempre pochi. Né si poteva pensare che il sacco diventasse farina o la farina sacco.
Fuor di metafora, non era pensabile una fungibilità dei ruoli tra chi aveva la capacità del mercante e chi deteneva i capitali indispensabili alla mercatura.
Spartire il lucro e limitare il danno
Abbiamo visto come solo il mercante era colui che si assumeva l’intero rischio della mercatura. Tuttavia si poteva per un verso accettare la diminuzione del lucrum finale distribuendolo fra i vari fattori di produzione, e dall’altro operare anche una dislocazione del rischio trasferendolo – nei limiti del trasferibile – ai diversi soggetti che a diverso titolo intervenivano dal di fuori nel processo di produzione.
Il divieto delle usure
Il povero e lo strozzino
Consideriamo la seguente situazione: da una parte abbiamo un soggetto (il mercante) che abbisogna di denaro (indispensabile per la mercatura); dall’altra ne abbiamo un altro disposto a fornirglielo a condizione di ricavarne un utile, di ricevere cioè in restituzione più di quanto prestato. Questa fattispecie – così come esposta – può riguardare indifferentemente un semplice finanziamento dell’impresa mercantile o una più seria ipotesi di strozzinaggio. Occorre quindi molta attenzione nel collocare una determinata situazione come quella esposta nella corretta posizione.
Le misure e le ragioni di un divieto
Il divieto delle usure non poteva avere – nel basso medio evo – fonte più autorevole: si trattava infatti di pagine bibliche. Il primo testo che vale la pena prendere in considerazione appartiene all’Esodo e contiene, accanto all’enunciazione formale del divieto, la sua motivazione, consistente nell’indigenza del mutuatario. Un secondo testo si legge nel Deuteronomio. Rispetto a quello dell’Esodo, quest’ultimo contiene due elementi in più, uno formale e l’altro di sostanza: quello formale è la descrizione delle cose che possono essere oggetto del mutuo di cui si impone la gratuità (denaro e viveri); quello sostanziale consisteva nel fatto che tale regolamentazione vigeva solo nei confronti dei “fratelli” con esclusione quindi degli stranieri.
Storicizzare, non smentire
Il problema con cui la prassi e la riflessione teorica si trovarono a fare i conti non fu quello di eludere il divieto o colpire i suoi contravventori. Si trattava invece di scoprire la connessione del divieto con una realtà sociale radicalmente mutata. Capire insomma che nella società mercantile non aveva senso una rigorosa conferma del precetto biblico. La chiave era nel denaro: rendersi conto insomma che la stessa natura del denaro era mutata. Si capì che mancando lo stato di bisogno (nel caso di mutui di denaro a fini di finanziamento) non si verificava una situazione di usura illecita.
Una “liberazione” mancata
Dal vangelo di Luca si legge: “date a mutuo senza sperarne nulla”. Da questa massima, così lapidariamente precisa, parve che all’interprete non fosse lasciato alcuno spazio e questa fu – infatti – la edulcorante ed eccessiva interpretazione che ne fu data per secoli. In realtà, con l’aiuto della lettura che ne dette Girolamo, il senso del divieto evangelico è che si deve essere disposti a dare a mutuo senza sperare di ricevere nulla in restituzione; ma nulla davvero, nemmeno la somma prestata. E quando si parla di “sperare” viene meno anche il senso giuridico del precetto. Lo “sperare” è essenzialmente un’azione interiore che, non avendo riflesso sul mondo esterno, non può avere rilevanza giuridica.
Nonostante questa considerazione il precetto di Luca fu ritenuto valido a lungo: la conclusione era che il mutuo doveva essere gratuito. Ribaltando però la chiave di lettura di questo principio se ne ricavava che era sufficiente qualificare un rapporto obbligatorio come diverso dal mutuo perché l’usura non fosse ritenuta illecita.
Nel Codex Juris Canonici troviamo una norma assai curiosa. Dopo aver definito puntigliosamente il mutuo senza mai citarlo per nome, la norma afferma la completa illiceità di qualsiasi usura per poi subito dopo ammettere che non è “di per se” illecito pattuire un interesse purché non eccessivo.
Un singolare tipo di società
Molti nomi per una cosa sola
In tutte le grandi piazze commerciali d’Italia e d’Europa – a partire dall’XI secolo – assistiamo all’emergere e al consolidarsi di una singolare figura contrattuale (commenda). Nei suoi termini essenziali essa può essere così descritta: “un commerciante comunemente designato con il termine tractator, riceve da un capitalista, detto stans, una sovvenzione e si obbliga ad impiegarla in determinate speculazioni mercantili ed a restituirla sotto le condizioni di un viaggio e un ritorno felice, insieme con una parte dei lucri”.
Le origini, i precedenti e le comparazioni
L’analisi dell’istituto della “commenda” deve partire senza dubbio dall’analisi storica delle sue origini (distinguendo dalle origini i cd. “precedenti” di scarsa utilità storico e giuridica). Questa indagine deve aiutarci a discernere la natura societatis della commenda stessa.
Mutuare, commendare, deponere
Oltre alla commenda, nella società basso-medievale possiamo trovare un altra forma di contratto ad essa assimilabile come finalità pratiche: il deposito irregolare. Con esso era previsto l’affidamento di una somma di denaro ad un mercante da parte di un altro soggetto (solitamente un banchiere) al fine di essere investita in affari di mercatura per poi essere restituita al depositante con l’aggiunta di un interesse. L’interesse, da un punto di vista economico, altro non era che una partecipazione al profitto d’impresa.
Una specie di società
La lucida presa di coscienza del fatto che il terreno della mercatura era per sua essenza estraneo all’antico divieto dell’usura si ebbe con Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae. Questi capì che il vigore dell’antico precetto si fondava sull’esigenza etica di proteggere il povero dall’oppressione usuraia; sicché la pur veneranda norma biblica abbisognava di essere, non smentita né elusa, ma storicizzata, se non si voleva arrivare ad applicazioni palesemente aberranti.
Alberigo da Rosciate raccolse la conclusione teologica e assolutamente non giuridica di Tommaso d’Aquino arrivando così a considerare il contratto da cui nasceva il rapporto fra finanziatore e mercante come “costitutivo” di una società tutta particolare.
La cartina di tornasole della decretale Naviganti
Una conferma puntualissima del trapianto della commenda sul terreno delle società commerciali, e del motivo che lo determinò, ci viene da una fonte normativa canonistica: la Decretale Naviganti. Gregorio IX qualificava come mutuo (e quindi soggetto al divieto di usura) un rapporto senza dubbio inquadrabile nella figura della commenda che abbiamo visto. A questo punto le possibilità erano soltanto due: assimilare la commenda al mutuo e quindi dedurne la natura usuraia (come fece Sinibaldo de Fieschi) o considerare la commenda una società e quindi trarla fuori dalla qualificazione di mutuo.
Un sistema nella storia
Società “irregolari”?
Abbiamo visto come le uniche due forme di società che l’esperienza giuridica basso-medievale conobbe furono la Compagnia e la Commenda. Quest’ultima possiamo definirla – a buon ragione – una società irregolare nel senso che si distaccava, per la sua natura che conosciamo, dalle forme “convenzionali” di società. E’ – oggettivamente – lo stesso discorso che vale per il c.d. deposito irregolare che, abbiamo visto, celava nient’altro che un mutuo.
Alcune curiose binature di fattispecie legali
Il codice vigente ci restituisce “binate” alcune di quelle fattispecie legali che nel processo di formazione dell’esperienza giuridica medievale erano confluite in unità; ma si tratta di binature frutto di dimenticanza di quel processo, di binature che sarebbero del tutto inutili se quel sistema codificato fosse stato costruito e venisse interpretato, non come universo bidimensionale chiuso in una sua asserita e compiaciuta perfezione, ma come prodotto contingente e provvisorio di un lungo travaglio storico che lo sopravanza, lo ricomprende, lo giustifica. A tal proposito basti pensare alla società in accomandita semplice e alla associazione in partecipazione oppure alla impresa familiare e alla società in come collettivo.
La tipologia delle società
Sul piano genetico abbiamo visto che il sistema delle società commerciali prende forma introno a due poli: da un lato la famiglia (Compagnia) e dall’altro il contratto di finanziamento (Commenda). Questo processo genetico ha condizionato – naturalmente – le strutture del sistema quale oggi appare.
Di certi fossili istruttivi
A voler trovare un riscontro oggettivo del principio appena esposto nel codice vigente, basta volgere lo sguardo alla società per azioni. In tale società quel che appare rilevante non è la qualità di socio come partecipe di un rapporto plurilaterale del potere di gestione ma il conferimento di un capitale e la libera trasferibilità di questo stesso conferimento. Adesso è chiaro come tale società non sia inquadrabile nella “stretta” nozione dell’art. 2247 (e ad ulteriore conferma si pensi alla natura giuridica della “azione”: si tratta di un titolo di credito?).

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